Laita (Cesuna)
In una caverna sulla Laita in Val Magnaboschi, abitava il Billar-Man, un omone grande e grosso, tutto pelo e muscoli. Viveva di caccia e di bacche di bosco e talvolta non disdegnava di fare qualche furtarello in paese: un po’ di pane, qualche salsiccia. Ma in fin dei conti, sotto quell’aspetto terrificante, erano celati un cuore sensibile ed un’innata timidezza. Chi lo vedeva scappava dalla paura ed il Billar-Man si nascondeva per lo stesso identico motivo.
Un giorno si era spinto verso il paese a cercare della selvaggina quando vide in una radura una bella ragazza. Il selvaggio si fermò di colpo, ma non così il suo cuore che iniziò a battere forte.
- Cosa mi piglia? – pensò. Il suo istinto di uomo semplice non lo fece riflettere un secondo di più: in un attimo si avventò sulla fanciulla che come lo vide iniziò a gridare a più non posso: - Aiuto!.... Aiuto! –
Senza dire una parola il Billar-Man se la caricò sulle spalle e si dileguò nel folto bosco verso la caverna. La malcapitata cercò di convincerlo con le parole: - Lasciami andare. Ti supplico.-
Ma ci voleva ben altro per far cambiare idea all’omone. Con lei aveva trovato il rimedio alla sua solitudine. La portò nella sua caverna e chiuse l’entrata con un grosso macigno.
- Vedrai – gridò alla poveretta – saremo felici insieme.-
Potete immaginare lo stato d’animo della donna... pianse, si disperò, ma da quella situazione non c’era via d’uscita.
Il Billar-Man alla mattina andava a caccia ed alla sera ritornava dalla sua compagna. La ragazza col tempo deperiva sempre di più, era sciupata e triste, ma sperava sempre che qualcuno l’andasse a salvare.
I giorni passarono e con essi i mesi e gli anni.
Dall’unione nacquero due bimbi: Gea e Peter.
Nonostante la loro grama vita crebbero sani e belli. Gea aveva un visetto grazioso ed una cascata di capelli neri, mentre Peter era un bimbo serio con occhi grandi e verdi come i boschi dell’Altopiano.
Il padre li adorava ed un giorno diede loro due pupazzi di legno e disse: – Li ho fatti io. Non sono molto rassomiglianti ma dovrebbero rappresentare voi due. –
I bimbi, strinsero i nuovi giochi al petto, abbracciando l’omone. La loro madre stava a guardare e scuotendo il capo pensò:
- Non posso resistere di più, devo uscire da questa situazione. –
Il mattino dopo, quando il Billar-Man uscì come sua consuetudine, la donna disse ai piccini:
- Chiamate, urlate, fate più baccano che potete, forse attireremo l’attenzione di qualche persona. –
Il caso volle che passassero di là dei cacciatori e sentendo dei rumori uscire dalla caverna chiesero:
- C’è qualcuno lì dentro? –
- Fateci uscire – supplicò una voce all’interno.
Così gli uomini spostando il masso si trovarono di fronte alle tre povere creature e chiesero loro chi fossero. La donna con voce tremante disse: - Portateci in paese, presto, e vi racconterò la nostra storia. – Quando il Billar-Man, la sera, tornò alla caverna e la trovò vuota, andò su tutte le furie. In preda alla rabbia si diresse verso il paese di Cesuna, ma quando arrivò trovò tutti gli uomini pronti ad affrontarlo.
- Vattene – gli gridarono – che vita hai fatto fare alla ragazza ed ai bambini! Cosa puoi offrire loro per il futuro? –
- Pazienza per la donna – disse l’omone – ma i figli no! Non toglietemeli. –
- Sono proprio loro che hanno più bisogno di una vita normale. Vattene e non tornare mai più – sentenziò l’uomo più anziano del villaggio.
- Mi hanno dato questo sacchetto per te. Aprilo, ma lontano da qui. –
Il Billar-Man tentò di resistere, ma una folla minacciosa lo scortò fuori dal paese fino ai limiti dell’Altopiano. Lo lasciarono solo quando videro che prendeva la strada per Calvene. Iniziata la discesa l’omone si ricordò del pacchettino che gli avevano consegnato. Aprì la carta: all’interno c’erano le due metà dei pupazzi di legno che aveva fatto ai suoi figli, legati da una cordicella come fossero i pendagli di una collana. Sul davanti le figure recavano incisi grezzamente due piccoli cuori. L’uomo si fermò. Girò lo sguardo verso le cime dell’Altopiano, mentre una lacrima scendeva sperdendosi tra i folti peli della barba.
Si mise al collo la strana collana e con passo deciso si avviò verso la pianura.
Giacominarloch (Cesuna)
Era una notte di luna piena ed in cielo brillavano miriadi di stelle. Joel, un giovane boscaiolo, stava camminando sulla strada che porta a Cesuna quando udì, dal bosco, una voce di donna che chiamava aiuto. Senza pensarci due volte corse verso il luogo da dove proveniva quell’invocazione. Si ritrovò così vicino ad una voragine:
- Vi prego, fatemi uscire da qui – continuava a chiedere la sconosciuta. Joel, inginocchiandosi vicino al bordo, gridò all’interno del buco:
- Mi procuro una corda e ritorno a soccorrervi.-
Nel giro di poco tempo, riuscì a trovare una fune e a calarla nella voragine.
- Aggrappati – disse Joel.
Poco dopo uscì alla luce lunare una splendida fanciulla dalle snelle forme. Aveva chiome lunghissime di un insolito color azzurrino ed una carnagione trasparente e chiara. Il boscaiolo rimase abbagliato dalla visione. Da lontano, in quell’istante, si udì il canto del gallo che annunciava l’alba vicina.
La bella giovane, che si chiamava Giacomina, all’udirlo esclamò:
- Non posso restare. Grazie di essere corso in mio aiuto – e nel breve istante che seguì si dileguò all’interno della voragine da dove era uscita, lasciando il ragazzo nella solitudine del bosco.
Ma l’immagine di quella fanciulla restò impressa nella mente di Joel che un giorno decise di scendere nel baratro per rivederla. Legò ad un abete una grossa fune e pian piano si calò nell’oscurità misteriosa della terra. Scoprì allora una fitta serie di gradini che scendevano tortuosamente nei meandri del sottosuolo.
Andò sempre più giù, finché un bagliore lo investì.
Era entrato nel favoloso mondo sotterraneo delle acque: cristalli sfaccettati splendevano sulle rocce, attorno, mentre monoliti di quarzo uscivano dal terreno come statue inneggianti la luce. Ma quello che più stupì il boscaiolo fu la miriade di strade che l’acqua aveva scavato durante i secoli. Cascate e ruscelli formavano laghetti festosi e bolle d’aria multicolori si mischiavano con la schiuma, mentre piccoli gorghi formavano girandole d’acqua qua e là. L’incanto ebbe fine quando udì la voce di Giacomina.
- Perché sei venuto? Non puoi fare niente per me. Ritorna sui tuoi passi prima che sia troppo tardi.-
- No – rispose Joel – ora mi devi dire perché sei scappata e chi sei. – allora la giovane donna raccontò la sua storia:
- Mio padre, un valente boscaiolo di Cesuna, fece un grave torto agli Elfi, i folletti che popolano i boschi.
Egli abbatté da solo centinaia di alberi dove essi abitavano e dovettero scappare e rifugiarsi quaggiù. La loro vendetta si riversò su di me. Mi rapirono e da allora mi hanno condannata a diventare un’anguana, un’ondina che andrà a primavera, assieme alle altre, ad alimentare i torrenti. Ci riverseremo nelle valli ed andremo ad ammaliare gli uomini con il nostro canto che li farà prigionieri delle acque – poi sospirando proseguì – ecco perché i miei capelli hanno questo colore, mi sto pian piano modificando. Quando mi hai
aiutato stavo cercando di fuggire, ma il canto del gallo mi ha fatto ridiscendere in fretta. – E guardandolo tristemente soggiunse:
- Lo sapevi che gli spiritelli del sottosuolo non possono sopportare la luce del sole? Io sto diventando come loro. –
- Ora tu vieni con me, non ti lascerò qui – disse il ragazzo e la trascinò verso l’uscita, ma gli scalini che permettevano di salire erano spariti.
- È opera degli Elfi delle anguane – rifletté la ragazza – hanno neutralizzato una nostra possibilità di fuga.
– Poi continuò: - L’unica via che ci rimane, se vuoi veramente portarmi con te, è l’onda delle illusioni. Essa passa di qui con la piena delle acque primaverili e da una strettoia sulla roccia della Val Tozza, vengono liberate alla luce del sole le anguane. Potremmo uscire con loro. –
- Ma – soggiunse – i loro fragili piedi, come pure i miei, con la spinta violenta delle acque, nell’uscire si ritorcerebbero all’indietro ed io come loro non potrei più camminare sulla terra.-
- Questo non avverrà – disse con determinazione il boscaiolo - fidati di me.-
L’ondata delle illusioni doveva passare di lì a poco. Il ragazzo raccolse filamenti vegetali e licheni e li assemblò attorno ai piedi della bella fanciulla affinché attutissero la violenza delle acque. Quando arrivò la piena, i due giovani vennero scaraventati fuori, nel torrente della Val Tozza. Non fu facile per loro guadagnare la riva. Ma che felicità poi quando si resero conto che il loro piano era andato a meraviglia!
Giacomina era salva e dalla gioia danzava salutando la natura ed il sole che le erano stati negati per molto tempo.
Chiacchierando animatamente i due ragazzi tornarono verso i paesi dell’Altopiano, ma ben presto si accorsero che le case, i vestiti della gente che incontravano e le strade stesse, erano diversi da quando erano entrati nella voragine. Le dimensioni del tempo nel sottosuolo erano diverse da quelle della vita sulla terra e si resero conto che essi erano rimasti giovani mentre nella realtà erano passati ben cento anni...
Si guardarono sgomenti negli occhi, poi senza parlare si presero per mano ed affrontarono assieme il futuro. A coronare la loro unione nacquero dei bei bambini con ricci capelli dai riflessi azzurrognoli ed una pelle chiara e trasparente… quasi come l’acqua. La voragine vicino a Cesuna, in ricordo della bella storia d’amore si chiamò “Giacominarloch”.
Cesuna (Val Magnaboschi)
Il bivio delle Cinque Strade che si trova nel territorio di Cesuna, visto dall’alto sembra un braccio scheletrico con una mano a quattro dita che ghermisce la montagna. L’arto è formato dalla strada che salendo divide la Val Magnaboschi dal Lintike. Le dita della mano invece formano quattro strade: una arriva da Val Magnaboschi e zona Grube, una proviene dal Lekle, un’altra sale dal Boscheldar e l’ultima dal Bruscon e Langabisa. Il bivio, chiamato dai paesani “Cinque Strade”, si trova vicino al rifugio Boscon. In quel luogo, sparse un po’ ovunque, ci sono molte ceppaie, residui di un taglio del bosco avvenuto tanto tempo fa. In certe notti di luna piena è meglio non passare di là perché quei monconi di alberi servono come sedili alle streghe. Eh sì! Periodicamente le fattucchiere arrivano per le loro riunioni e allora in quel bivio vibrano mille ombre, mentre strani rumori riempiono l’aria. Una sera il nano Anselmo che viveva al Lintike, si trovò nei paraggi proprio quando le streghe stavano arrivando a bordo delle loro scope.
- Che fare? – si chiese il povero ometto. La situazione era tragica! Il nano, per non essere visto, decise di mimetizzarsi e, mettendosi carponi, finse di essere una ceppaia.
- L’oscurità – pensava – mi proteggerà dagli sguardi delle streghe!
Così fu, ma una delle megere di nome Lungavista, che in realtà era assai miope, si sedette proprio sulla schiena del povero Anselmo.
Il nanetto, morto di paura, cercò di rimanere immobile per non svelare la sua presenza.
Le streghe cominciarono a parlare delle loro malefatte e delle loro magie.
- Sapete…? Ieri ho trasformato una fanciulla in una pianta, - diceva una vecchietta sdendata mentre le altre compagne sghignazzavano sguaiatamente.
- Io invece ho mutato un contadino in una lepre. Come correva…- raccontava un’altra. E poi giù a ridere di nuovo.
Frattanto la loro compagna Lungavista, che aveva dei capelli grigi svolazzanti, pensò di togliersi gli spilloni che tenevano a freno la sua chioma disordinata e di piantarli della ceppaia che fungeva da sedia. Anselmo si trovò così due aghi conficcati nelle cosce e due nella schiena. A stento si trattenne dall’urlare e con le lacrime agi occhi aspettò che la riunione si chiudesse.
Alle prime luci dell’alba il simposio ebbe fine. Le fattucchiere, assieme a Lungavista, ripresero il volo sulle loro scope dileguandosi in cielo.
Anselmo tirò un sospiro. Cercò di vedere se gli spilloni erano rimasti nel suo corpo ma non li trovò. Il dolore per le punture che la strega gli aveva inferto però non passò, anzi, continuò per giorni e giorni.
Il male ormai durava da un mese ed egli decise di interpellare il nano Pignolo, giudicato da tutti il più saggio del bosco. Pignolo lo ascoltò con attenzione e poi disse:
- Ti consiglio di tornare al bivio delle Cinque Strade per la prossima riunione delle streghe: mettiti nel luogo della scorsa volta e nella stessa posizione. Vedrai che qualcosa succederà!-
Anselmo, pur di liberarsi di quelle fitte, ascoltò il consiglio del saggio Pignolo e come ci fu un’altra notte di luna piena si recò per tempo nel luogo del raduno. Si mise carponi e si munì di pazienza.
Aspettò un po’ di tempo e finalmente a mezzanotte arrivarono le fattucchiere. Una delle ultime a posare i piedi a terra fu Lungavista che, come sempre, aveva i suoi lunghi capelli al vento.
Planò con la scopa proprio vicino ad Anselmo e si sedette come l’altra volta sul nanetto accovacciato.
Tolse il suo largo cappello dalla testa e lo appoggiò sull’erba. I suoi occhietti semiaperti scrutavano l’oscurità. Con l’ossuta mano tastò il sedile sotto di lei ed esclamò: - Toh! La scorsa volta ho dimenticato qui nel legno i miei spilloni e ora li ritrovo. Ecco dove li avevo lasciati. Che distratta!-
Così dicendo estrasse dal corpo di Anselmo i quattro spilloni liberandolo dalle fitte dolorose.
La riunione delle streghe procedette fino all’alba tra risate e bevute. Prima della nascita del sole, le fattucchiere ripresero le loro ramazze e si alzarono in volo per tornare nelle grotte sparse per l’Altopiano dei Sette Comuni.
Che sollievo fu per Anselmo!
Quando il luogo restò deserto, il nano si alzò, si massaggiò la schiena e fischiettando ritornò nel bosco contento di aver risolto il suo problema.
Da quella notte si guardò bene di passare per quel bivio sotto la luce della luna piena.
E voi cercate di seguire il suo esempio se non volete incorrere in brutti incontri: le streghe tengono ancora convegni alle Cinque Strade sedute su quelle comode ceppaie.
Valdassa-Seleghen Baiblen
Tra larici e abeti, qua e là sui declivi dell’Altopiano, ma soprattutto lungo la costa della Valdassa, vivevano le Seleghen Baiblen. Erano buone fatine vestite di bianco e la loro altezza non superava quella di un bambino. Abitavano in caverne naturali, si cibavano con le bacche del bosco e con gli animali avevano un rapporto di amicizia e rispetto. Volpi, orsi e caprioli le trasportavano con piacere e con loro dialogavano in una lingua che nessun essere umano capiva.
Queste piccole fate erano solite passare la giornata dipanando lana; ne facevano poi dei gomitoli che avevano il potere di non finire mai. Le Seleghen Baiblen talvolta li regalavano agli uomini meritevoli, ma le piccole fate avevano un carattere assai permaloso e come sapevano premiare, altrettanto sapevano punire chi veniva meno alla loro fiducia. Così fu che un giorno una giovane e ambiziosa donna andò da loro per chiedere aiuto:
- Care fatine – disse con voce melliflua, - mio marito si appresta ad essere governatore del mio paese. L’investitura a questa importante carica gli verrà data fra pochi giorni e vorrei fargli un vestito degno dell’occasione. Potreste fare qualcosa per me? –
Una piccola fata stava in quel momento finendo di avvolgere un filo di lana dorata attorno ad un grosso gomitolo e quando ebbe finito alzò i suoi limpidi occhi sulla donna e le tese lo splendido filato.
- Prendilo, te lo regalo; ma ad una condizione: non stancarti di tessere questa lana. Il tuo lavoro dovrà continuare giorno e notte finché il filo non finirà. Non dimostrare insofferenza e sarai ricompensata se avrai buona volontà.-
- Grazie – rispose la donna felice e se ne tornò a casa per mettersi al lavoro.
Il risultato fu stupefacente. In poco tempo confezionò un vestito degno di un re.
- Chissà – pensò – come sarà contento mio marito. –
Il marito, sotto l’aspetto austero, celava un animo gretto e privo di scrupoli e quando vide il vestito esclamò:
- Con questo abito domani farò un figurone e tutti mi invidieranno! -
Il giorno dopo si presentò nella grande sala delle riunioni ed il suo ingresso fu davvero trionfale. Molte illustri persone lo attorniarono per ammirare quello splendido vestito.
- Che tessuto meraviglioso - si sentiva mormorare – mai visto niente di più raffinato. –
E lui, gonfiandosi come un pavone, gongolava di gioia malcelata.
Giunse infine il momento dell’investitura e l’importante personaggio di turno, messa la mano sulla spalla dell’aspirante governatore, formulò le frasi di rito.
Sua moglie, intanto, era rimasta a casa a tessere quella lana che non finiva mai. Stufa del lavoro incessante, sbuffava sempre più forte finché, in un impeto d’ira, scagliò per terra il gomitolo ed esclamò:
- Basta! Quelle stupide fate mi hanno costretta a star qui mentre mio marito si sta divertendo altrove! E questo gomitolo che non vuole finire…-
Così dicendo diede un calcio alla palla di lana che a quel violento contatto sparì! In quell’istante a parecchie miglia di distanza anche il vestito del suo sposo sparì e dal detto al fatto il malcapitato si trovò in mutande.
Il pubblico, dopo un primo momento di stupore, non poté trattenersi dal ridere ed il neo eletto governatore, cercando di darsi un portamento dignitoso, uscì in fretta dalla sala e si dileguò.
La troppa ambizione si sa, talvolta, porta grossi guai!
Monte Lèmerle (Cesuna)
Il sanguinello era un folletto tutto rosso dalla testa ai piedi. Piccolo e solitario, lo si poteva trovare ovunque sull’Altopiano poiché amava passeggiare tra i boschi ed i paesi. Era dispettoso e combinava scherzi a persone ed animali. Ma questo spiritello aveva anche strani poteri: se una persona era così sfortunata da calpestare le sue impronte, doveva seguirle ed immancabilmente si perdeva. Inoltre, un po’ per paura, un po’ per i sortilegi del sanguinello, il malcapitato usciva di senno e non capiva più dove si trovava e cosa gli stesse succedendo.
Tanto tempo fa, un boscaiolo di Cesuna andò a “far legna” verso il monte Lèmerle. Una volta finito il lavoro caricò una fascina di legna sulle spalle e ritornò verso casa. Ad un certo punto sentì che le gambe non rispondevano più ai suoi comandi e il sentiero
si faceva sempre più lungo e strano. Gli alberi attorno a lui si stavano trasformando in case così alte che quasi non si vedevano i loro tetti. Preso dalla paura, cominciò a correre per uscire da questo labirinto, ma si trovò improvvisamente immerso nel buio.
Era in una grotta dove le rocce assumevano forme e sembianze strane. Solo una fievole luce illuminava il cunicolo ed egli procedeva con cautela senza toccare le pareti che potevano aprirsi dove metteva la mano e richiudersi con chissà quali conseguenze.
- Ma dove sono andato a finire? – si chiese il boscaiolo.
Improvvisamente un grosso foro sembrò aprirsi sul pavimento e lui si sentì precipitare.
Un senso di vertigine lo prese e gli parve di cadere per un tempo infinito.
Mentre aspettava di sfracellarsi al suolo chiuse gli occhi e invece niente, quando li riaprì era immerso nella nebbia e non vedeva ad un palmo del suo naso. Le gambe lo spingevano ancora contro la sua volontà. A quel punto gli venne un sospetto.
- Vuoi vedere che ho camminato sulle orme del sanguinello? Quello spiritello dispettoso che girovaga sempre fra i boschi! -
In effetti era successo proprio questo.
Il pover’uomo tentò di fare qualche altro passo, ma al diradarsi della nebbia scoprì sagome di esseri non ben definiti in un paesaggio desolato fatto di acqua stagnante e sassi aguzzi. Fumi azzurognoli si levavano dal terreno mentre strane apparizioni
danzavano attorno al boscaiolo impietrito dalla paura.
- Io mi fermo qui. È inutile che prosegua o il sanguinello mi farà impazzire del tutto.- Si sedette a terra, chiuse gli occhi e aspettò.
Dopo un po’ di tempo che sembrava non finire mai, sentì una voce che lo chiamava:
- Compare, che ci fai seduto li? –
- Ho calpestato le orme di un sanguinello. Ti prego, prendimi per un braccio e toglimi da questa schiavitù – rispose il boscaiolo al provvidenziale richiamo.
Sentì allora che una forte mano stringeva il suo braccio e lo trascinava via. Gli sembrò di uscire da un incubo. Il boscaiolo vide che la natura intorno a sè aveva riacquistato le forme di sempre e la rassicurante figura di un suo paesano era vicino a lui. Tirando un
sospiro di sollievo, raccontò la sua disavventura e insieme all’amico, riprese la strada di casa.
Poco distante da lui, un folletto tutto rosso appollaiato su un ramo d’abete sghignazzava soddisfatto del trambusto che aveva creato.
La storia della Zizzara
Era un giorno freddo e ventoso tipico dell’inverno Altopianese; quel giorno si stava dentro casa, vicino alla stufa e si guardava fuori dalla finestra… passò per la strada principale di Cesuna un’enorme carrozza tutta nera trascinata da ben 7 cavalli tutti identici e tutti bianchi.
Destò subito curiosità questo evento. Tutti, grandi e piccini, si precipitarono fuori per vedere chi potesse trasportare quella carrozza. Ne scese una signora di mezza età dai lineamenti nordici, dai lunghi capelli corvini una pelle bianca e perfetta come il ghiaccio e delle unghie molto, molto lunghe. Il cocchiere
scaricò 7 bauli neri tutti decorati di oro e di bronzo.
La signora andò ad abitare in una contrada un po’ defilata del paese in una casetta disabitata con il tetto di paglia. Gli abitanti di Cesuna la soprannominarono ben presto la “Zizzara”; portava sempre un grande cappello a falda di velluto in testa, a volte era rosso, a volte blu, a volte nero ed altre viola, e si raccontava
indossasse 7 sottane una sopra l’altra.
I cesunesi, intimoriti da questa misteriosa figura che non parlava con nessuno, iniziarono a spiarla di nascosto.
Qualcuno diceva di averla vista raccogliere strane erbe nel giardino al chiaro della luna piena, altri parlare con i suoi 7 gatti e altri ancora rimestare un enorme pentolone fumante nel quale buttava dentro intingoli ed intrugli.
Ma la cosa più inquietante che rimase impressa agli anziani del paese fu il racconto di un loro coetaneo che aveva visto la Zizzara parlare con il marito emigrato a Vienna attraverso un piatto pieno d’acqua.
Insomma per tutti era la strega del paese.
In verità in quegli anni in cui rimase a Cesuna ci furono degli eventi molto positivi: si raccoglievano ceste piene di verdure dai campi, l’acqua era sempre fresca ed abbondante, gli animali pascolavano sereni e il latte era buono.
Si racconta anche che quando i bambini del paese passavano per quella contrada la Zizzara offriva loro caramelle e mele. Un giorno però su Cesuna scese la tenebra: una grande bufera di neve e ghiaccio fece chiudere tutti dentro le proprie case, e fu proprio da quel giorno che nessuno la vide più…
la casetta era stata abbandonata e un incendio la devastò, né restarono pochi sassi ma nessuno sa dove possano essere perché gli anziani del paese non rivelarono mai dove abitava la Zizzara!
Ma che fine avrà fatto? Si dice che abbia raggiunto l’amato marito a Vienna.
Chi lo saprà mai, ma i vecchi cesunesi ricordavano sempre che le caramelle di quella “STREGA” erano le più buone che avessero mai assaggiato.